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21/12/07 – il manifesto
 
Di sette ne resta uno solo
Un operaio strappa il nastro sulla corona di
fiori della multinazionale e grida: «Avete le mani sporche di sangue».
L’azienda si scusa con il sindaco
Manuela Cartosio

A lottare per la vita resta solo Giuseppe
Demasi, 26 anni. Stessa età di Rosario Rodinò, spirato ieri mattina
all’ospedale Villa Scassi di Genova, sesta vittima del rogo alla
ThyssenKrupp di Torino. La notizia della morte di Rodinò è arrivata a
Torino poche ore prima del funerale di Rocco Marzo, il capoturno
deceduto domenica scorsa. La piccola folla raccoltasi ieri nella chiesa
di San Giovanni Maria Vianney – quartiere Mirafiori – si ritroverà tra
qualche giorno per un altro funerale. Che il cardinale Severino Poletto
sperava di non dover celebrare. L’arcivesco, in gioventù prete operaio,
ha ribadito quanto aveva detto giovedì scorso in cattedrale di fronte
alle prime quattro bare. Il posto di lavoro è «sicuro» solo là dove
vengono scrupolosamente rispettate le norme di sicurezza. I dati e la
cronaca – il cardinale ha ricordato i cinque morti nella sola giornata
di martedì – dimostrano che questo rispetto manca. «Ormai le morti sul
lavoro sono un’emergenza nazionale. Occorre un sussulto di
responsabilità del Paese».
Un sussulto, in questo caso di rabbia, ha
spinto Ciro Argentino a un gesto pubblico di protesta. Ha strappato il
nastro con la scritta ThyssenKrupp sulla corona di fiori inviata
dell’azienda. «Avete le mani sporche di sangue», ha urlato il delegato
della Fiom ai dirigenti della multinazionale presenti al funerale di
Rocco Marzo. Tra loro, l’amministratore delegato Harald Espenhahn e
Cosimo Cafueri, responsabile sicurezza dell’acciaieria torinese.
Quest’ultimo, ascoltato l’altro ieri in Senato dalla Commissione
d’inchiesta sugli infortuni, ha sostenuto che alla ThyssenKrupp il
sistema antincendio «era ed è a posto». Giovanni Pignalosa, pure lui
delegato Fiom, dice che affermazioni di questo genere «offendono la
verità ed esasperano chi ha visto i compagni di lavoro trasformati in
torce umane». Ciro l’esasperazione e la rabbia «l’ha buttata fuori»,
altri «se la tengono dentro». Pignolosa ha un consiglio da dare ai
dirigenti locali della Thyssen: «Tacciano. Più parlano, più si danno la
zappa sui piedi». La loro autodifesa cozza con un fatto
incontrovertibile: «Dopo il 2005, decisa la chiusura, l’acciaieria è
stata lasciata andare a se stessa». Manuenzioni al lumicino, formazione
antinfortunistica zero. Pignalosa, entrato alla ThyssenKrupp 12 anni
fa, può fare confronti: «Prima non era così, c’era più attenzione alla
sicurezza. Poi è cambiato tutto».
Il suo racconto combacia con
quello, disperato, di Giovanni Rodinò, padre di Rosario. Lui in viale
Regina Margherita ha lavorato ben 34 anni, «allora quella fabbrica
funzionava come un orologio, adesso era una bomba a orologeria». E’
stato lui a «convincere» il figlio ad entrare alla ThyssenKrupp, a
seguire «le orme paterne». Accasciato su una sedia nell’ospedale di
Genova dove Rosario è spirato dopo 13 giorni d’agonia, il padre ripete
«colpa mia, colpa mia». Pignalosa vuole trasmettere un messagio a papà
Giovanni: «Non hai nessuna colpa, hai fatto quel che qualsiasi padre
premuroso e assennato avrebbe fatto. Lavorando nell’acciaieria eri
riuscito a tirare su la famiglia. Pensavi che la storia si sarebbe
ripetuta per tuo figlio. La strage ha altri colpevoli». Una strage
«annunciata», dice Giovanni Rodinò, perché la dismissione aveva fatto
passare in cavalleria la sicurezza. Racconta che Rosario, in pochi
anni, aveva subìto due infortuni, il più grave una scottatura al
braccio. Non era contento d’essere stato spostato al turno di notte. E
di notte «me l’hanno ammazzato», prosegue in lacrime il padre. Rosario
non è morto uscendo da una discoteca, «è morto sul lavoro». Adesso
indagare sui dirigenti che non hanno rispettato le norme «non serve
proprio a niente». La faranno franca, teme Giovanni Rodinò.
Anche
dalla chiesa di Mirafiori, come era successo in Duomo, i dirigenti sono
usciti da una porta laterale. Nel pomeriggio una delegazione della
ThyssenKrupp Italia, guidata dal direttore generale Ralph Labonte, è
stata ricevuta da Sergio Chiamparino. Ha consegnato al sindaco di
Torino una lettera di scuse in cui il presidente della multinazionale,
Ekkehard Schultz, riconosce il ritardo dell’azienda nel dare un «segno
forte» di partecipazione al lutto che ha colpito le famiglie delle
vittime e la città. E’ l’atto di contrizione che il sindaco pretendeva
per ristabilire «normali relazioni» con la ThyssenKrupp. I
rappresentanti dell’azienda hanno ribadito l’impegno a sostenere «ora e
in futuro» i familiari della vittime. Hanno dato la loro disponibilità
a sedersi a un tavolo per affrontare il futuro dei dipendenti
dell’acciaieria torinesi. Sono meno di 200 e nessuno degli operai è
disposto a tornare a lavorare «là dentro». L’azienda parla di
«ricollocazione lavorativa». La formula lascia intendendere che non
mira a riaprire per pochi mesi un’acciaieria destinata comunque a
chiudere entro settembre. Sa che gli interventi per metterla in
sicurezza richiederebbero tempo e denaro. Il gioco non vale la candela.
Almeno su questo la pensa come i suoi dipendenti torinesi. Che però
vogliono garanzie sul loro futuro.
Dell’addio a Rocco Marzo, 54
anni, resta una frase, pronunciata da tutti i giovani operai: «Per noi
non era un capo, era un padre». Ce lo dicono Pignalosa e il delegato
della Uilm Vincenzo De Pasquale. Gaspare Tre Re, in servizio sul carro
ponte la notte dell’incendio, aggiunge che «Rocco non era un capo come
gli altri, ci trattava come figli, ci diceva sempre di fare
attenzione». A Tre Re resta negli occhi un’immagine orribile: «Quella
di Giuseppe, avvolto dalla fiamme, che mi urla di gettargli dell’acqua
in faccia perché gli bruciava. Ho preso la manichetta ma l’acqua usciva
da un foro che c’era nel tubo». Giuseppe Demasi, ricoverato al Cto di
Torino, oggi subirà un terzo intervento chirurgico. Le sue condizioni
restano gravissime, ha ustioni sul 95% del corpo.
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