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Le vere ragioni del lavoro “flessibile”
Sei atipici su dieci per pagare meno

 
Solo
il 39 per cento dei contratti a termine è legato a reali esigenze
dovute al ciclo economico o al tipo di produzione. Prevale nelle
imprese invece l’intenzione di ridurre il costo del lavoro e la
valutazione del costo-opportunità legato alla possibilità di
licenziare. Per l’83 per cento dei lavoratori con “scadenza” non è una
scelta volontaria. L’anticipazione dell’indagine Plus dell’Isfol su 40
mila persone

di FEDERICO PACE

Non
ci sono i cicli economici a giustificare la gran parte dei contratti a
tempo che gli italiani sono costretti ad accettare come pegno per
accedere al primo girone del mercato del lavoro. Non ci sono i picchi
di produzione e le commesse che arrivano e poi scompaiono a spiegare il
perché i giovani, le donne e gli over 50 sono costretti a non rifiutare
un’offerta di lavoro a tempo pur di salire su quel primo gradino che
sta distante dalla cittadella, sempre più piccola e disabitata, del
lavoro a tempo indeterminato. Sì, perché le esigenze di flessibilità
produttive e organizzative spiegano solo una parte minoritaria del
ricorso delle imprese ai contratti atipici.

I risultati sono contenuti nell’anticipazione del rapporto Plus
dell’Isfol presentata oggi e che nella sua completezza verrà pubblicata
ai primi dell’anno prossimo e realizzata su un campione di 40 mila
individui. Ma vediamoli i motivi che giustificano i contratti atipici.
Solo il 17 per cento dei contratti temporanei è legato a lavoro
stagionale o a picchi di produttività. C’è poi un altro 12 per cento
collegato a un progetto a commessa e infine un altro 10 per cento
legato alla sostituzione di personale temporaneamente assente.

E allora, perché tutto questo ricorso ai contratti atipici? E allora,
perché utilizzare nuovi contratti di lavoro se non ci sono esigenze di
flessibilità produttiva? Per la gran parte dei casi, dicono gli autori
del rapporto, “la scelta di fare assunzioni temporanee” sembra “sia
dovuta alla tendenza di ridurre il costo del lavoro e il
costo-opportunità legato alla possibilità di licenziare”.

Il fenomeno, si sa, non è relegato a piccoli numeri. Riguarda infatti
il 24 per cento dei giovani, il 12 per cento di chi risiede nel
Mezzogiorno e il 13 per cento delle donne con un impiego. E quasi la
metà dei contratti atipici è stata già rinnovata almeno una volta
“avvalorando – spiegano gli autori dell’indagine – per queste posizioni
il ricorso sistematico ad un fattore lavoro flessibile”. L’indagine
ribadisce che la gran parte degli occupati a termine (l’83 per cento)
vive non volontariamente “la condizione di non stabilità derivante dal
contratto”.

Nell’indagine di approfondimento del lavoro atipico ci sono però anche
elementi che introducono qualche speranza. La metà delle persone
intervistate reputa infatti possibile “migrare” verso un contratto a
tempo indeterminato. Ma sono soprattutto gli elementi di non
volontarietà a colpire. Anche il lavoro interinale è una scelta
obbligata per la gran parte delle persone. Il 76 per cento degli
intervistati lo ha accettato come ripiego e solo una parte minoritaria
(il 18 per cento) lo sceglie per accadere in seguito ad una condizione
di impiego a tempo indeterminato. Anche per loro si registra
l’iterazione del contratto (nel 58,4 per cento dei casi). Per gli
“interinali” la speranza di passare a una condizione più stabile è
molto bassa: solo un quarto lo ritiene possibile.

Anche per i collaboratori sembra permanere un uso distorto
delle tipologie contrattuali. Anche quest’anno infatti molti di loro
sono soggetti a vincoli tipici dei dipendenti: il 78,5 per cento lavora
per un solo committente, il 64,32 per cento deve garantire la presenza
regolare presso la sede dell’impresa, il 60,3 per cento ha un orario
giornaliero, l’85,3 per cento usa mezzi, strumenti e strutture del
datore e il 61,7 per cento ha rinnovato la collaborazione almeno una
volta.

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