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Centomila No al Dal Molin
Malgrado le parole del presidente
Napolitano, malgrado il freddo, la neve e Trenitalia, la manifestazione
di ieri a Vicenza è andata oltre ogni aspettativa. Pochi i politici
presenti e molti fischi anche per i partiti «amici». Per fermare il
raddoppio della base Usa
 
Benedetto Vecchi

Inviato a Vicenza

 
La voce sale di tono ed alla fine è quasi
un urlo liberatorio: «Siamo più di ottantamila persone, forse
centomila. La cosa del corteo è ancora chilometri indietro». La
risposta sono fischietti impazziti, battimani a ripetizione, bandiere
bianche con la scritta «No Dal Molin». «NoTav», «No Mose», «No F35»
sbandierate con forza. Ogni dubbio, ogni timore si è sciolto come la
neve che aveva imbiancato la città durante la notte. Sin dalla mattina
i volti scrutavano la stazione di Vicenza per vedere se i treni
portavano manifestanti. A Milano arrivano voci di piccoli tafferugli
perché la polizia non voleva far partire i manifestanti, mentre molti
pullman erano in ritardo per le nevicate della notte e del primo
mattino.
Ma i timori più forti erano dovuti a quella dichiarazione
del presidente della repubblica Giorgio Napoletano che, in visita negli
Stati Uniti, aveva mandato a dire che la decisione era presa, che i
contrari potevano scrivere lettere o fare altro, tanto nulla avrebbe
portato il governo a cambiare la sua scelta. Era dunque inutile anche
manifestare in piazza il dissenso e che era per questo meglio restare a
casa. Invece la manifestazione di Vicenza contro il raddoppio della
base militare statunitense è andata al di là delle più ottimistiche
previsioni degli organizzatori. Non ci sono state neanche le
contestazioni a ministri o esponenti di partito presenti nel governo
Prodi. Anche perché quelli che sono venuti nella città veneta erano
davvero pochi. Giovanni Russo Spena, Francesco Caruso, Lalla Tropia di
Rifondazione comunista. Franco Turigliatto, eletto nelle file di
Rifondazione comunista e ora all’interno dell’avventura di Sinistra
critica dopo essere uscito dal partito di Franco Giordano. E se
Francesco Caruso faceva avanti e indietro per poi fermarsi nei pressi
del camion dei Giovani comunisti, gli altri parlamentari erano
invisibili, come fantasmatico era lo striscione firmato da «Sinistra
arcobaleno», schiacciato tra i militanti del partito comunista dei
lavoratori di Ferrando e la galassia dei gruppi anarchici presenti nel
corteo.
Già, perché la lettura politica della manifestazione di
ieri è abbastanza chiara. Le ottanta, centomila persone che hanno
percorso in lungo e largo la città veneta hanno espresso una distanza
siderale da quanto avviene a Montecitorio o nelle segreterie dei
partiti, nessuno escluso, anche se le critiche più feroci erano
indirizzate contro il governo Prodi e la sua ala sinistra, colpevoli
secondo i manifesti di aver disatteso le promesse elettorale e gli
impegni presi da parte di Rifondazione comunista, Comunisti italiani e
Verdi di porre all’ordine del giorno un ripensamento sulla decisione di
raddoppiare la base statunitense. Come reagirà il centrosinistra al
successo della manifestazione è però argomento del giorno dopo. Più
importante è cercare di capire come continueranno la mobilitazioni
contro l’inizio dei lavori. Perché i protagonisti della manifestazione
sono le donne e gli uomini che hanno reagito alla «strategia del
silenzio» e hanno pacificamente occupato Vicenza.
Gran parte dei
manifestanti hanno scelto di mettersi dietro il camion del presidio
permanente. Sono scout, over-quaranta con un significativo curriculum
di pacifismo «radicale» alle spalle, attivisti dei centri sociali di
ogni dove, militanti dei sindacati di base, abitanti della Val di Susa,
agit prop dei comitati contro gli inceneritori della Campania. Tanti,
tantissimi i vicentini, che hanno ritmato per tutto il corteo la loro
opposizione alla base militare delle loro città, sostenendo con gli
striscioni e i – pochi – slogan che il rifiuto dei lavori non è dovuto
certo alla convinzione di mantenere lo status quo vicentino. Con un
linguaggio avvertito si potrebbe dire che sono l’altra città, quella
che non ama il «modello di sviluppo del nord-est». In un melange di
generazioni, culture politiche diverse.
I «No Tav» si sentono
quasi a casa loro. E quando dal palco un loro portavoce invita a
«resistere per esistere» e che tra Vicenza e la Val di Susa non ci sono
molte differenze, allude a una tessitura di una rete – sociale e
politica – che pensa di poter far valere le proprie ragioni attraverso
la costruzione di un consenso che guardi tuttavia criticamente alle
realtà locali da cui prendono avvio le mobilitazioni. In fondo, sono
stati proprio i valsusini ad affermare che il rifiuto della Tav non era
teso a mantenere la realtà così come è, ma per affermare il diritto a
prendere il destino nelle proprie mani. La posta in gioco è proprio
questa. Che dalle polis greche in poi è problema di democrazia, cioè di
chi prende la parola perché non ha mai avuto il potere di farlo.
Il
corteo ha attraversato in lungo e largo la città. Ha attraversato
quartieri dove la «strategia della tensione» ha portato a chiudere
negozi e a sprangare le finestre. Ma quando poi il corteo ha toccato
lateralmente il centro cittadino, i negozi erano invece aperti. Infine,
i comizi finali con delegati da tutta Europa e dagli Stati Uniti (molti
i gruppi di statunitensi, da quelli contro la guerra in Iraq a quelli
dei veterani del Golfo a quelli che chiedono l’impeachment di George W.
Bush). Hanno preso la parola Dario Fo, che ha definito pazzi gli
esponenti del centrosinistra che si schierano contro i loro elettori,
mentre parole al vetriolo sono state pronunciate contro il presidente
della repubblica («è andato negli Stati Uniti dove ha fatto la first
lady di George Bush»). Don Gallo ha infine preso la parola per definire
«figli di puttana» chi ha deciso il raddoppio della base. Espressione
per cui valgono le parole della scrittrice Arundhati Roy: «Avrà forse
ragione, ma non mi piacciono le persone che insultano le donne».
Poi
il corteo si è nuovamente messo in marcia per raggiungere l’area dove è
previsto il raddoppio della base militare. A guastare la festa ci ha
provato Trenitalia che non voleva far partire i manifestanti venuti da
fuori perché non avevano pagato il biglietto. Momenti di tensione, ma
poi è intervenuto Gino Sperandio, altro deputato di Rifondazione
comunista presente al corteo, che ha pagato il prezzo imposto da
Trenitalia.
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